ASSOCIAZIONE AMICI DEL MUSEO PEPOLI  -  Trapani

 
 
 

 

 

 

 

 

INDICE (linkabile)

   La quadreria Fardella

   La collezione Cordici

   La collezione Hernandez

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Nel 1830 decise di donare la sua “quadreria”, alla città natale dove nel frattempo (21 aprile 1830)  era sorta una Biblioteca Civica nei locali dell’ex chiesa di San Giacomo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I dipinti della quadreria Fardella sono attualmente sistemati nelle sale  del primo piano del Museo Pepoli, secondo un ordine cronologico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cordici ad Erice fu direttore dell’Archivio dell’Università, fondatore e presidente dell’Accademia dei Difficili, Giudice criminale e, nel 1625, consultore degli Spettabili Giurati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ai suoi ospiti  usava regalare degli oggetti, come due anelli con scarabei

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il frammento di fregio che reca scolpite a bassorilievo croci greche gigliate, entro motivi romboidali incavati, alternati con motivi triangolari opposti ai vertici, si trova ora nel Museo Regionale “A. Pepoli” di Trapani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al fine di tramandare le immagini delle sue monete, il Cordici affida al sacerdote Matteo Gebbia il compito di riprodurle graficamente.

 

 

 

 

l’erudito ericino lasciò per testamento ... la collezione e i libri al convento di San Francesco d'Assisi di Erice,... ma i frati dispersero quel patrimonio e ne vendettero la maggior parte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il nostro Francesco nacque ad Erice il 2 febbraio 1737

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'Hernandez, ... nella sua casa di Erice,...  raccoglieva più di 2.500 monete

 

 

 

 

 

 

 

A Ludwig, che  fu ad Erice il 10 novembre 1817, l'anziano conte ... regalò una testina di Iside in pasta vitrea, proveniente da Mozia, un cuore egizio e numerose monete greco-sicule. A sua volta il principe nel 1818, dalla Baviera, ricambiò l'omaggio con 48 medaglioni d'argento, raffiguranti i sovrani della sua dinastia dal 1174 al 1727.

 

 

 

Ne faceva infatti parte il più “celebre” dei presepi trapanesi: quello in rame dorato, argento, corallo e smalti (fine sec. XVII - inizi XVIII), ora al Museo Pepoli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come in quasi tutte le collezioni private isolane, anche in quella Hernandez, la ceramica ebbe una parte dominante

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un oggetto singolare è il guscio di conchiglia ... che reca incisa sulla madreperla la Natività

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il conte Francesco jr., fu uomo colto e “intelligente in cose d'arte”; quasi certamente aveva una personalità più versatile e più aperta del nonno

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Progetto Scuola Museo 2011-2012

La cultura della musealizzazione dall'800 ad oggi:

il conte Pepoli racconta la sua storia di collezionista

 

LA QUADRERIA FARDELLA E LE COLLEZIONI CORDICI ED HERNANDEZ

di

Lina Novara

LA QUADRERIA FARDELLA

Giovan Battista Fardella (Trapani 29 luglio 1972 - Napoli 6 novembre 1936) era figlio di Vincenzo Fardella Bluvier, marchese di Torrearsa e Dorotea  Fardella Tipa.

Bello e biondo di aspetto, occhi ebbe cerulei vividi e penetranti… (Mortillaro 1836).

Compì a Napoli gli studi militari presso la Real paggeria dove entrò all’età di otto anni, conseguendo a diciotto il grado di tenente di cavalleria; percorse tutti i gradi della carriera militare fino a quello di tenente generale.

Nel 1794 partecipò alla battaglia dell’Adda contro le truppe napoleoniche e nel 1798 prese parte alla battaglia di Orbetello con il grado di colonnello di cavalleria. E ancora nel 1800 ebbe il comando per la presa della Valletta e su quest’impresa  scrisse il Discorso politico militare istorico conservato presso la Biblioteca Fardelliana. Nel 1820 lo troviamo a Messina, con il grado di generale dell’armata siciliana e con l’incarico di sedare i moti carbonari.

Negli anni  tra il 1825 e il 1830, durante i quali il generale era stato chiamato da Ferdinando I di Borbone a far parte del governo provvisorio del Regno delle due Sicilie, come ministro di Guerra (1821), e  successivamente da Francesco I era stato nominato ministro e segretario di Stato per la Guerra e la Marina (1830), il Fardella aveva acquistato numerosi dipinti nei mercati antiquari di Napoli e Roma. Quando morì a Napoli nel 1936  di colera, aveva da poco iniziato anche una raccolta di materiale archeologico e numismatico per la creazione di un Museo a Trapani.

Nel 1830 decise di donare la sua “quadreria”, alla città natale dove nel frattempo (21 aprile 1830)  era sorta una Biblioteca Civica nei locali dell’ex chiesa di San Giacomo, che venne intitolata al generale, in quanto ne era stato il promotore e aveva erogato la somma di 50.000 lire per l’acquisto di libri.

Nella sala a lui dedicata, fra due colonne arabe, è posto un mezzobusto in marmo di Carrara dello scultore Giovanni Tacca.

Fu il fondatore anche di un liceo, di una scuola nautica, di un istituto per l’educazione delle fanciulle e del lazzaretto.

A Trapani nel primo ventennio dell’Ottocento si parlava molto di istituire un museo e un altro trapanese, il Cav. Giuseppe  Berardo di Ferro, umanista, storico e letterato aveva manifestato l’intenzione di istituire una pinacoteca comunale e ne aveva fatto richiesta al Comune. Quest’ultimo approvò l’istituzione nel 1827 dopo avere ricevuto dalla moglie del pittore Giuseppe Errante, Matilde Gattarelli, alcuni quadri del marito; altri dello stesso Errante il Comune li aveva acquistati nel 1824. 

I dipinti del Fardella provvisoriamente confluiscono nei locali di una sala del Collegio dei Gesuiti e successivamente nella Pinacoteca Civica, ubicata  nella stessa sede della Biblioteca  Fardelliana.

La collezione comprendeva inizialmente quadri acquistati in grandissima parte nel mercato antiquario di Napoli e di Roma, ma venne incrementata negli anni successivi dal Fardella: tra il 1830 e il 1837 anno della sua morte donò infatti circa 140 quadri.

Nell’Esposizione storica ed artistica della Fardelliana, tenutasi nei giorni 15 e 16 agosto 1875 c’erano: 130 opere di G. Battista Fardella tra tele, tavole, dipinti “su intonaco” e su rame; 14 opere di Giuseppe Berardo Ferro: tele e la Pietà di Roberto da Oderisio; 44 opere del Pepoli.

Nella Pinacoteca Fardelliana erano conservati complessivamente 217 pezzi, tutti poi confluiti nel Museo Pepoli: comprendeva opere donate dal cav. Giuseppe Berardo Ferro,  da Don Antonio Sieri Pepoli, opere acquistate dal Comune.

I dipinti della quadreria Fardella sono attualmente sistemati nelle sale  del primo piano del Museo Pepoli, secondo un ordine cronologico. Nella sala della pittura quattro-cinquecentesca si trova una rielaborazione fiamminga del tema leonardesco della Madonna con il Bambino e San Giovannino, ispirata ad un dipinto di Quentin  Metsys, interessante per la descrizione del paesaggio che fa da sfondo e per gli accenni di “natura morta” in primo piano. Senza dubbio degna di attenzione è la Vergine seduta tra due Angeli, replica di un dipinto del maestro di Francoforte, ora al Museo di Gand, che si ispirò ad un’opera dello stesso soggetto  del celebre Jan Van  Eyck.

La pittura del ‘500 nell’Italia meridionale, soprattutto napoletana, è documentata dalla tavola con Santo Vescovo, identificato  con San Gennaro; faceva sicuramente parte del registro superiore di un polittico smembrato, attribuito ad Andrea Sabatini da Salerno (1484-1530), un pittore che, acquisita la lezione di Raffaello, come si può ben notare nel dipinto, l’ha divulgata nell’Italia meridionale.

Al Sabatini in passato era stata riferita anche la Crocefissione che studi più recenti attribuiscono invece a Giovanni Filippo Crisciuolo, suo seguace e collaboratore, al quale forse appartiene anche la lunetta con l’Eterno Padre e Angeli.

Al manierista  Marco Pino da Siena viene riferita la patetica Deposizione di Cristo nel sepolcro, una interessante piccola tavola, probabilmente un bozzetto, forse utilizzata anche come sportello da tabernacolo, stilisticamente vicina ad opere di Polidoro da Caravaggio  e di Taddeo Zuccari. La scena, in sintonia con i dettami della Controriforma che vuole provocare con episodi fortemente drammatici il coinvolgimento emotivo dell’osservatore e la meditazione sui fatti sacri, colpisce per l’intenso patetismo dato dalla posa di Cristo che sta per essere deposto nel sepolcro, dall’aggrovigliarsi delle figure attorno al suo corpo morto e dalle espressioni intensamente dolorose dei componenti la scena: Maria, Giuseppe di Arimatea ed alcuni apostoli.

Sulla scia di Marco Pino e Polidoro da Caravaggio è la tardocinquecentesca Orazione nell’orto, mentre nell’ambito della scuola cretese veneziana si colloca L’adorazione dei Magi della fine del secolo XVI.

L’Adorazione del Crocefisso, un tema molto diffuso tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600, è rappresentata nel San Francesco, tela molto espressiva, attribuita al bolognese Ludovico Carracci e caratterizzata da un forte naturalismo e da effetti luministici, quasi precaravaggeschi.

Dedalo e Icaro, di artista vicino ai modi di Guarino Guarini, rappresenta ancora il ‘600 napoletano.     

Altri dipinti napoletani del Seicento, influenzati dalla cultura caravaggesca sono:

 - il grande dipinto raffigurante Il casto Giuseppe  e la moglie di Putifarre, opera giovanile del famoso “Cavaliere Calabrese” Mattia Preti;

- la Maddalena coi capelli disciolti, una tela di Andrea Vaccaro;

 - La Vergine di Massimo Stanzione, un dipinto devozionale da camera, che si impone per i colori vivaci, (soprattutto il rosso e il blu), per gli effetti di luce ma anche per le fluide pennellate, date secondo i canoni di una pittura sacra popolare, destinata ad uso domestico.

In questo stesso filone di pittura sacra devozionale si inseriscono le due piccole tele raffiguranti rispettivamente Sant’Apollonia e Sant’Agata, attribuite a Giovanni Ricca per talune assonanze stilistiche con la sua Adorazione di pastori, in Santa Maria al Sepolcro di Cosenza.

Nell’ambito di Salvator Rosa si colloca una Battaglia, di un ignoto maestro che ha caratterizzato il dipinto con rapidi tocchi di colore.

Interessante è sicuramente L’Assunta, bozzetto preparatorio eseguito dal Solimena per la grande pala della cattedrale di Capua, realizzata nel 1723, nella quale, come nel bozzetto, il pittore va alla ricerca dell’effetto coreografico, popolando la scena di figure; egli non tralascia tuttavia di equilibrare la composizione e di far emergere il vigore plastico e il senso del colore.

Nella cerchia del Solimena si colloca l’ignoto autore della tela raffigurante L’Adultera.

Numerosi i quadri “di paesaggio” di pittori olandesi e le Vedute con rovine; in particolare  a Giacomo De Heusch, di Utrecht (1657-1701), attivo anche a Roma dove si accosta alla pittura di Salvator Rosa, sono attribuiti  i due Paesaggi campestri con figure e armenti, nei quali la natura inondata di luce, è protagonista incontrastata della scena.

Al napoletano Leonardo Coccorante (1680-1750), fine pittore di quadri con rovine, sono riferite tre interessanti, scenografiche Vedute ideate, nelle quali fantastiche architetture e marine in tempesta, dai toni grigio-verdi, nel rispetto della poetica settecentesca del capriccio, quasi preannunziano alcuni aspetti   malinconici del Romanticismo.

Del pittore fiammingo Jan Mieuse Molenaer, di Haarlem (c. 1610 - 1668), è una tavoletta raffigurante Bevitori in una bettola; il dipinto, particolarmente interessante per il soggetto, raro in Italia, appartiene alla maturità dell’artista, influenzato dallo stile di Rembrant, soprattutto nella resa degli effetti luministici. L’opera si inserisce, a buon diritto, nel repertorio di scene di interni che l’olandese  amava dipingere e ha il pregio di essere un piccolo capolavoro nell’ambito della pittura di genere.

La “natura morta” è un genere molto apprezzato, nei secoli XVII - XIX, dai collezionisti privati, ed anche dal Fardella che nella sua raccolta annoverava diversi dipinti.

I quadri rappresentano soggetti inanimati, fiori, frutti, animali morti e vengono attribuiti ai maggiori pittori napoletani specializzati in tal genere e ad Abraham Brueghel, discendente della famosa famiglia di artisti fiamminghi,  che trascorse a  Napoli gli ultimi anni della sua vita, dal 1676 al 1697.

A lui sono riferiti:

- due Vasi con fiori,  di cui uno firmato, che offrono allo spettatore la gradevole visione di fantasiose composizioni floreali, ricercate nell’accostamento dei fiori e dei colori, collocate su sfondi paesaggistici che si intravedono in lontananza;

- la straordinaria, grande tela raffigurante l’Allegoria della terra, un trionfo della natura, esuberante di fiori e frutti, con la presenza, rara in questo genere pittorico, di figure umane. Il pittore che  si è e espresso con colori brillanti e ricercati effetti luminosi, per la realizzazione dell’opera si avvalse probabilmente della collaborazione di Andrea Malinconico, un artista napoletano, seguace di Luca Giordano, i cui modi sono rintracciabili soprattutto nella resa delle figure. La Natura morta con frutta è di Giovan Battista Ruoppolo; qui uva, pesche, melegrane e angurie, naturalisticamente modellate dalla limpida luce che ne fa anche brillare le superfici, sembrano rivolgere all’osservatore l’invito a prenderle e ad assaporarle. Altri si trovano nei depositi.

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LA COLLEZIONE CORDICI

Antonio Cordici (Erice 1586 - 1666), umanista, erudito, “archeologo” e primo  dei collezionisti ericini, almeno finora conosciuti, probabilmente ereditò dal padre Giambiagio la passione per il collezionismo. Spinto dal desiderio di conoscere e tracciare la storia della sua Erice, si dedicò a studi e ricerche, avvalendosi delle conoscenze storiche e letterarie, derivanti dagli studi umanistici compiuti a Napoli e a Palermo. Pienamente convinto che senza la conoscenza della storia non si potessero studiare i monumenti, grazie al suo bagaglio culturale fu in grado di fare riferimenti a Platone, Polibio, Diodoro Siculo, Pausania.

Del suo aspetto fisico riferisce Castronovo due secoli dopo: … Era il Cordici di mezzana statura, corpulento, di colore plumbeo, di costituzione linfatica, di umore malinconico, ma a quanto a quanto, lepidissimo celiatore. Avea  venerando i l capo e il volto. Laconico nel parlare, nello scrivere breve, rapido, denzo nell’andamento, nel fare, nel conversare dava la sembianza di un antico filosofo (Castronovo 1870).

Antico filosofo e antico saggio di quelli che non bizantineggiarono sterilmente sul sesso degli angeli, lo definisce  Vincenzo Adragna  (Adragna 1960).

Cordici ad Erice fu direttore dell’Archivio dell’Università, fondatore e presidente dell’Accademia dei Difficili, Giudice criminale e, nel 1625, consultore degli Spettabili Giurati.

Nella sua casa definita dall’arciprete Vito Carvini “Officina filosofica”, collezionava libri, manoscritti, monete, reperti archeologici,  “anticaglie” (Carvini ms. secolo XVII).

Dalla Istoria della città di Monte Erice, manoscritta dal Cordici, affiora prepotente la passione che egli aveva per l’antiquaria e, anche se non fa riferimento alla collezione, fra le righe fa intuire che le monete che va esaminando sono in suo possesso, e solo qualche volta lo precisa (Cordici ms. secolo XVII).

Il Carvini (1644 - 1701) che vide la collezione, fece invece un’ampia descrizione dei pezzi nella sua Erice antica e moderna sacra e profana (Carvini ms. secolo XVII). La raccolta Cordici comprendeva circa 3.000 oggetti, in parte ereditati dal padre, in gran parte acquistati, o rinvenuti ad Erice: amuleti, idoli, statuine, vasi, resti di iscrizioni, orecchini, pendenti in pietra o in terracotta, medaglie e monete di vario tipo, una pietra d’anello con Iside, una medaglia di terracotta con volto abraso e palma sul rovescio, una moneta di pietra, una gemma “antica con la storia di Erice”, cioè con i simboli del fuoco (folgore), dell’acqua (delfino), dell’aria (caduceo), della terra (tronco secco).

Due secoli dopo, tra le anticaglie appartenute al Cordici il Castronovo indicava anche due fusti di colonnine marmoree, “uno più grande ed uno più piccolo, con iscrizioni arabe o puniche”, che  erano stati rinvenuti a Trapani durante i lavori di scavo delle fondamenta della chiesa di San Rocco (Castronovo ms. secolo XIX).

Le iscrizioni, per incarico del Cordici, furono studiate dall’annalista carmelitano Padre Lezzana che, nella prima, lesse un riferimento al porto di Trapani, chiamato “porto dell’eminente”, nella seconda, la data poco leggibile di un ampliamento dello stesso. Le due colonne furono lasciate in eredità dal Cordici ai Padri Conventuali di San Francesco di Erice  e probabilmente da questi donati al conte Hernandez.

La collezione fu visitata da illustri personalità: lo stesso Cordici ci informa di avere ricevuto, nel giugno 1649, don Diego Requesens, arcivescovo di Cartagine  e vescovo di Mazara  “per vedere e dilettarsi di alcune antichità che io tengo” (Cordici ms. secolo XVII).

Altro importante visitatore fu George Walter (Georgius Gualterus), di Augsburg, studioso di epigrafia al quale si deve il più ampio corpus di epigrafi della Sicilia, e al quale il Cordici mostrò le iscrizioni in suo possesso. Ai suoi ospiti  usava regalare degli oggetti, come due anelli con scarabei, donati rispettivamente a Don Carlo Maria Ventimiglia e al dottor Silvestro Rondelli, procuratore fiscale della Gran Corte (Cordici ms. secolo XVII).

La maggior parte delle monete descritte e collezionate dal Cordici è riconducibile ad emissioni in argento e in bronzo delle città di Palermo, Lilibeo, Selinunte, Pantelleria ed anche di Cartagine come il Decadramma  argenteo con testa di Kore e Pegaso, del 266-241 a.C.

Gli studiosi siciliani di antiquaria erano convinti che la presenza sull’isola di antichità non riconducibili al mondo greco-romano fosse da riferire alla civiltà egizia: tra questi il catanese Pietro Carrera, il trapanese Leonardo Orlandini e i due ericini Cordici e Carvini. Questa interpretazione si affermò in particolar modo in quelle località dove veniva rinvenuto numeroso materiale egizio o egittizzante, ritenuto prova inconfutabile della presenza degli Egizi in quel territorio.

Anche se nella ricerca di testimonianze “egiziane” gli eruditi rivolsero maggiore interesse verso il patrimonio numismatico, forse perché le monete erano ritenute i documenti più significativi, tuttavia spesso anche altri reperti vennero utilizzati a riprova della presenza egizia, con  dimostrazioni  che oggi risultano prive di fondamento reale. A tal proposito Cordici indica “una pietra marmorea… con le croci rotta  in quattro pezzi… congiunti che si conserva nella chiesa di S. Maria Maddalena fuor la città, sotto le ruine del tempio di Venere che si dee credere habbia cascato dal tempio con due colonne, una rotta in tre… tengo io che sia stata intagliata dagli egitii”.

Il frammento di fregio che reca scolpite a bassorilievo croci greche gigliate, entro motivi romboidali incavati, alternati con motivi triangolari opposti ai vertici, si trova ora nel Museo Regionale “A. Pepoli” di Trapani. Classificato come prodotto di “arte bizantina” del secolo VIII,  e così catalogato da Vincenzo Scuderi  ne "Il Museo Nazionale Pepoli in Trapani" (Scuderi 1965, pp. 6, 29), con provenienza Erice, viene poi dallo stesso inserito come frammento di stipite fra gli elementi plastico architettonici provenienti da monumenti bizantini e romanici dei secoli IX-XIII (Scuderi 1978, pp. 19, 32). Nel ribadire il carattere tardo-bizantino, specie per la presenza di ovuli nello smusso marginale, che lo avvicinano ad un frammento rinvenuto ad Apornà (Creta), Scuderi fa riferimento ad un generico "vecchio inventario" del Museo Pepoli che indicherebbe la provenienza dall'antica chiesa dell'Annunziata di Trapani, cioè la cappella di S. Caterina dell'Arena, preesistente alla chiesa gotica trecentesca. Il Cordici attesta inequivocabilmente la provenienza ericina di questo bassorilievo, i cui motivi decorativi sono ricorrenti in ambito bizantino: il motivo romboidale è infatti presente in un ambone del VI secolo conservato al Museo Archeologico di Istambul; quello della croce all'interno di rombi orna un pilastro o un basamento di statua del V-VI secolo, dello stesso Museo (Novara 1997).

Altra importante moneta della collezione era il denario in argento di Considio Noniano, del 63/62 a.C., la prima ed unica rappresentazione del tempio di Venere Ericina (Novara 1978). “Tempio con un serraglio circondato da tre torri oggi anco in più con qualche variazione della porta della entrata, della quale se ne veggono i segni non nella fronte della torre, ma in un lato di altra torre” (Cordici ms. secolo XVII).

Al fine di tramandare le immagini delle sue monete, il Cordici affida al sacerdote Matteo Gebbia il compito di riprodurle graficamente. Interessanti sono i disegni che questo apprezzato architetto-disegnatore esegue per il testo del Cordici: al Gebbia si devono anche le illustrazioni del manoscritto del Carvini e alcune immagini di Erice del 1680. Nonostante la ricerca di fedeltà al dato reale, i disegni contengono tuttavia talune ingenuità ed incertezze prospettiche.

Ad un altro sacerdote, Antonio Castella, “che si diletta di disegni”, il Cordici affida nel 1648 il compito di riprodurre un suo anello con “pietra”, ritrovata misteriosamente spezzata, secondo il suo giudizio, ad opera di uno “spirito” in essa contenuto. Per motivi altrettanto misteriosi il sacerdote, non ritrova i due disegni eseguiti per il Cordici.     

Il Castronovo nelle Meditazioni: Musei, Anticaglie della montagna dell’Agro Ericino riferisce che l’erudito ericino lasciò per testamento, presso il notaio Curatolo, gli averi, la collezione e i libri al convento di San Francesco d'Assisi di Erice, fiducioso di affidare la sua preziosa raccolta a buone mani.

Ma i frati dispersero quel patrimonio e ne vendettero la maggior parte: alcuni pezzi della collezione vennero in possesso del Gran Maestro dei Cavalieri di Malta e quello che avanzò dallo “sperpero”, come riferisce Guarrasi (Guarrasi 1870, IV, p. 132), costituì il fondo originario della raccolta del conte Francesco Hernandez, poi pervenuta al Museo Pepoli.

Il Castronovo lamenta inoltre che i Francescani neanche si curarono di ricordare il Cordici con una lapide sulla sua sepoltura che, sempre secondo Castronovo, dovrebbe trovarsi “in qualche angolo della chiesa di S. Francesco” (Castronovo ms. secolo XIX).

Una parte della collezione, attraverso vari passaggi, è pervenuta al Museo Cordici.

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LA COLLEZIONE HERNANDEZ

Francesco Hernandez, conte di Carrera (Erice 1737 - 1828), giurista, “antiquario”, studioso di archeologia, erudito collezionista “giunse a mettere su uno scelto museo di anticaglie soprattutto ericine. E quantunque l'avesse fondato sulle estreme reliquie del Museo Cordici…, pur tuttavia gliene aggiunse molte da sè medesimo” (Castronovo  ms. secolo XIX).

La collezione, denominata “Museo Hernandez”, era considerata una delle più importanti non solo della Sicilia, ma anche d’Italia (Novara 1997).

Il conte era discendente da una antica famiglia spagnola alla quale apparteneva quel Francesco che nel 1588 si trasferì in Sicilia per ricoprire la carica di capitano d'arme.

Il nostro Francesco nacque ad Erice il 2 febbraio 1737; compiuti gli studi prima a Trapani e poi a Palermo, conseguì la laurea in Discipline Giuridiche presso l'Università di Catania e si iscrisse, nel 1760, all'albo degli avvocati presso i Supremi Tribunali del Regno. Fu giudice civile e criminale di monte S. Giuliano, avvocato fiscale presso la Corte Capitanale e giudice assessore della Corte Ecclesiastica.

Per particolari meriti fu insignito del titolo di “conte di Carrera” con Real Decreto del 5 marzo 1785.

Illuminista, intenditore di numismatica, si dedicò nella sua Erice all'archeologia e al collezionismo negli stessi anni in cui si intraprendevano scavi a Siracusa e Agrigento e si fondava a Palermo la “Colonia della Società Colombaria di Firenze”, finalizzata ad incentivare gli studi di antiquaria.

Sono gli anni in cui Ignazio Paternò, principe di Biscari, a Catania, e Gabriele Lancillotto Castelli, principe di Torremuzza, a Palermo, raccolgono e ordinano  reperti archeologici nei loro palazzi.

“Questo Cavaliere ericino, illuminato conoscitore di nummografia ha riunito nella sua patria un numeroso accozzamento di monete siciliane puniche ed esotiche:
conserva altresì un gabinetto con alcuni monumenti di alcune antichità, di storia naturale e di vari altri oggetti indigeni e stranieri” (Di Ferro 1825, p. 308).

Egli stesso scrisse su Erice: Abbozzo delle notizie accadute in Erice, Ragguaglio storico di Erice, inviato all'editore Cesare Orlandi di Perugia per essere pubblicato nella “Storia di tutte le città d'Italia”, Rapporto sulle antichità di Erice, in risposta a mons. Airoldi, Real Deputato per il restauro e la conservazione dei monumenti in Val di Mazara.

L'Hernandez che al titolo nobiliare preferì sempre quello di “antiquario”, nella sua casa di Erice, sita nella piazzetta San Giuliano, raccoglieva più di 2.500 monete (d'oro, d'argento, di cuoio, di cristallo: greco-sicule, puniche, romane, arabe, normanne, spagnole), cammei, lucerne, contenitori di profumi, lacrimatoi, idoli di alabastro, bronzetti - tra cui una famosa statuetta femminile di offerente della seconda metà del VI secolo a.C. - bolli figulini e sigilli, tutti rinvenuti tra le rovine del tempio di Venere ad Erice, oltre ad oggetti di storia naturale, libri e manoscritti, tra cui Erice antica sacra e profana di Vito Carvini.

La raccolta di medaglie era una delle più ricche della Sicilia, ma quando nel 1921 la collezione fu acquistata dal Museo Pepoli era ridotta a soli  200 pezzi (Novara 1997).

Lo stesso conte usava regalarle ai visitatori illustri del suo museo come il principe  Torremuzza, l'abate Chiopi, storiografo di Luigi XV, il pittore e viaggiatore francese Howel. L'antiquarium ericino  ebbe altri importanti visitatori: S. E. Lilimbeg, comandante delle truppe austriache, il principe Paniatoski, nipote di Stanislao, ultimo re di Polonia, il Langravio d'Assia Philipstad, il principe elettorale Ludwig, poi re di Baviera.

Ciascun visitatore apponeva la firma e la data della visita nel “Registro dei visitatori”, ora al Museo Pepoli (Novara 1997).

A Ludwig, che  fu ad Erice il 10 novembre 1817, l'anziano conte “che gongolava di gioia” (Castronovo ms. secolo XIX) per le lodi tessute dal principe, regalò una testina di Iside in pasta vitrea, proveniente da Mozia, un cuore egizio e numerose monete greco-sicule. A sua volta il principe nel 1818, dalla Baviera, ricambiò l'omaggio con 48 medaglioni d'argento, raffiguranti i sovrani della sua dinastia dal 1174 al 1727.

Non sappiamo con quale criterio Francesco Hernandez  avesse ordinato i pezzi della sua collezione in alcune stanze sia del piano inferiore che di quello superiore della  casa di Erice: pensiamo ad una specie di wunderkammer dove erano raccolte anticaglie, naturalia, mirabilia, opere eterogenee per fattura, qualità e provenienza. Alcuni oggetti d'arte sicuramente provenivano dal mercato antiquario, altri, la maggior parte, erano  prodotti dell'artigianato locale del corallo, dell'avorio, del legno tela e colla, dell'ambra, della madreperla (Novara 1997).

Naturalia erano fossili, lumache, serpenti  pietrificati, arboscelli di corallo, gusci di conchiglie e due grosse mandibole di pesci.

Mirabilia erano oggetti rari e curiosi, indigeni e stranieri, come un antico breviario manoscritto in pergamena, i cui caratteri sorprendevano l'osservatore.

Come tutte le raccolte pubbliche o private che accoglievano oggetti di “arti minori”, soprattutto nell’Italia meridionale, quella Hernandez conteneva due esemplari di presepe. Ne faceva infatti parte il più “celebre” dei presepi trapanesi: quello in rame dorato, argento, corallo e smalti (fine sec. XVII - inizi XVIII), ora al Museo Pepoli, ampiamente studiato e riprodotto, (fig. a fianco), per il quale si rimanda alla scheda del Catalogo della mostra “L'arte del corallo in Sicilia” (1986).

Mi sembra però opportuno segnalare l'esistenza di un esemplare “gemello” da me individuato nel Castello di Masino (Torino), già dei conti Valperga di Masino, ora del F.A.I., dall'identica struttura architettonica: un edificio classico in rovina con colonne, archi e rivestimento in bugnato, dove si svolge la scena della Natività i cui personaggi, in origine di corallo, sono ora posticci. Sicuramente i due esemplari sono stati eseguiti sullo stesso disegno, o forse nella stessa bottega (Novara 1997). Non conosciamo le vicende e i passaggi legati all'arrivo a Masino del manufatto trapanese, ma considerando che un altro presepe in corallo, simile ai precedenti, fu donato da un vicerè spagnolo ad un duca estense di Modena (poi trasportato a Vienna e dopo la prima guerra mondiale restituito all'Italia), ora nel Museo Nazionale S. Martino di Napoli, e che preziosi oggetti in corallo avevano una “destinazione aulica” e venivano spesso offerti a personaggi di corte o di alto rango, come la dispersa Montagna di corallo, inviata in dono dal vicerè di Sicilia a Filippo II di Spagna, viene facile ipotizzare che qualcuno dei ricchi conti Valperga avesse ricevuto in dono il presepe o lo avesse acquistato per la collezione del Castello: forse Carlo Francesco I di Masino (sec. XVII-1717), persona raffinata, aggiornato verso tutte le tendenze del gusto, dal guardaroba personale all'arredo del Castello, o Carlo Francesco II (1727-1811), il più famoso della casata, ambasciatore a Parigi, in Portogallo, in Spagna e viceré di Sardegna dal 1780.

Va inoltre sottolineato che i manufatti trapanesi in corallo erano molto apprezzati da collezionisti italiani ed esteri e che illustri famiglie come i Doria di Genova, i principi di Lignè a Beloil, i conti di Schoenborn a Pommersfelden, e poi i Whitaker a Palermo ne possedevano  pregevoli esemplari.

L'altro presepe della collezione Hernandez è di piccole dimensioni, montato “su sughero con incrostazioni di madreperla e corallo grezzo e pastori di avorio in numero di cinque” (Inventario Museo Pepoli): Maria, Giuseppe, due pastori (uno genuflesso ed uno recante una pecora), una donna con un canestro di frutta sulla testa e un bambino per mano; Gesù Bambino è posticcio.

Elencato tra le opere di bottega dei Tipa, il manufatto è degno di nota per alcune peculiarità, prima fra tutte la composizione scenica che, sostituendo la tradizionale quinta architettonica simulante edifici in rovina, è formata da una grotta  costituita da tanti piccoli pezzi di madreperla, di rametti di corallo, di pietre colorate che, con ciuffi di vero muschio, fanno da  apparato alla scena della Natività.

La donna con canestro in testa è inoltre un personaggio ricorrente nei presepi attribuiti ad Andrea Tipa e in altri di bottega trapanese come nel già citato in corallo della stessa collezione. Completano la composizione presepiale quattro piccoli animali: due mucche con un vitellino (in alto) ed un cane.

Alla collezione appartenevano anche altri oggetti in corallo (ora nel Museo Pepoli): una placchetta ovale con Madonna con Bambino, in rame dorato, corallo, smalti (metà sec. XVII), dall'anomala iconografia che pone la Madonna sopra una mezzaluna, attributo solitamente pertinente all'Immacolata; un'acquasantiera ottagonale (prima metà sec. XVII), in rame dorato, smalto,  argento e coralli, applicati con la tecnica del retroincastro, ed una coppia di capezzali  identici, in rame e coralli, a sagoma esagonale e cimasa allungata terminante con una croce greca (Novara 1997).

All'artigianato trapanese sono inoltre da ricondurre le circa cinquanta statuine da presepe, singole o in gruppo, ora conservate nel Museo Pepoli, raffiguranti pastori, re magi, animali, eseguiti nei secoli XVII e XVIII, quasi tutti in legno tela e colla.

I pastori sono rappresentati in varie pose: seduti, inginocchiati, in cammino, dormienti, con bisaccia, con fiasca e con cornamusa (Novara 1997); alcuni sono attribuibili al più famoso tra i “pasturari” trapanesi, Giovanni Matera, altri alla bottega di Andrea e Alberto Tipa (sec. XVIII), cui  vengono riferiti un pastore dormiente  e un viandante.

Di Calogero Mandracchia da Sciacca (1762-1833) sono invece le vivaci capre in cera, rappresentate in modo veristico e talvolta anche con un apprezzabile gusto macchiettistico come il gruppo formato da una pecora rampante e da una capra che colpisce un'altra con le corna; sua è anche una vacca in cera (Novara 1997). 

Come in quasi tutte le collezioni private isolane, anche in quella Hernandez, la ceramica ebbe una parte dominante con esemplari di varia forma e provenienza: piatti, bombole, albarelli, vassoi, vasi ed altri oggetti di uso domestico o di farmacia: di produzione toscana, ligure, veneta, umbra, romagnola, napoletana e naturalmente siciliana (Novara 1997).

Non mancavano esemplari esteri:

- due significativi piatti ispano-moreschi, a lustro, con decorazioni geometriche, opere valenziane di fine sec. XVI - inizi XVII;

- un piatto svedese (sec. XVIII) con il marchio della fabbrica di Marieberg (nel retro), decorato con fiori policromi nel fondo e sull'orlo;

- una saliera, un vasettino e dei piattini del Giappone (secc. XVIII-XIX).

Della collezione facevano parte anche alcuni oggetti in vetro, per lo più di uso domestico: bicchieri, bottiglie, ciotole, anforette, pissidi, con  qualche esemplare proveniente da Murano, di datazioni comprese tra i secoli XVII e XIX (Novara 1997).

Appartenevano alla collezione anche quattro “stampe” ora nei depositi del Museo Pepoli.

Un manufatto interessante è il cammeo d'ambra siciliana del sec. XVIII, piano da una faccia, convesso dall'altra, rappresentante una scena marina (Novara 1997): un veliero naviga in mezzo ad un tratto di mare increspato, compreso tra “case”. E' questo uno dei rari esempi in cui l'ambra siciliana, dal colore particolarmente raffinato, viene usata per un cammeo, destinato forse ad essere montato su metallo pregiato. Sfruttando al meglio la spiccata fluorescenza del materiale, l'anonimo incisore, molto probabilmente trapanese, traccia il disegno sulla parte piana (retro) per farlo risaltare, attraverso la trasparenza, sulla parte convessa del cammeo (Novara 1997).

Nella ricca produzione degli artigiani trapanesi che nel secolo XVIII realizzarono piccoli capolavori con i materiali più svariati, si inseriscono due rari medaglioni in conchiglia bianca sulla quale sono incisi a bassissimo rilievo, rispettivamente San Francesco d'Assisi e San Francesco di Paola (Novara 1997; Novara 2003): il primo è raffigurato appoggiato su di un libro aperto con le mani giunte sotto il mento, in atto di pregare il Crocifisso, posto sopra un teschio. Il Santo di Paola è invece in posa estatica e rivolge lo sguardo verso sinistra, mentre porta la mano destra sul cuore e tiene il bastone nell'altra.

Entrambi i cammei sono inseriti in un ovale di pietra nera, circondato da una cornice esterna in madreperla, formata da fiori, volute e foglie di gusto rococò. L'ignoto incisore dei due medaglioni (sec. XVIII), sfruttando abilmente la bicromia del materiale marino, fa ben risaltare dal fondo grigio le bianche figure dei due Santi e le nuvole che popolano le scene, anche se rivela qualche incertezza nella resa dei volti; più sicura è la tecnica esecutiva della cornice in madreperla (Novara 2003).

Sono molti i nomi degli incisori trapanesi tramandati dagli scrittori locali, che nei secoli trascorsi lavorarono i materiali marini, ma allo stato attuale solo pochi manufatti sono riconducibili al loro autore; ricordiamo i nomi di Andrea e Alberto Tipa, rinomati anche per la lavorazione dell'avorio e del legno tela e colla, Paolo Cusenza, attivo nel sec. XVIII, autore, fra altro, di un cammeo su ostrica con la personificazione del Nilo, Salvatore Mazzarese molto esperto, tra la fine del sec. XVIII e gli inizi del XIX, nella lavorazione del nicchio marino da cui ricavava cammei sfruttando il naturale contrasto di colore dei due strati della conchiglia, il bianco superficiale e il rosa sottostante.

Un oggetto singolare è il guscio di conchiglia, pervenuto al Museo Pepoli, che reca incisa sulla madreperla la Natività, dove il solco del bulino è ritracciato in nero per sottolineare il disegno: la presenza di un foro all'apice fa pensare ad un oggetto da appendere. Tutto intorno al bordo della conchiglia corre una cornice con motivi a zig-zag, realizzati ad incisione. Lo spazio interno è occupato dalla scena della Natività: Maria e Giuseppe sono inginocchiati davanti al Bambino, posto su di un giaciglio di paglia. Da dietro  i mantelli dei due genitori compaiono le sole teste del bue e dell'asino. La tecnica dell'incisione, un po’ approssimativa, sembra avvicinarsi a quella delle stampe popolari o dei santini devozionali siciliani dei secoli XVIII e XIX. Non poche perplessità riguardo l' attribuzione suscita la presenza, nello stesso museo, di un altro manufatto simile, proveniente dalla collezione Pepoli, raffigurante San Michele nell'atto di scacciare il demonio e contenente due iscrizioni in  arabo (Novara 1997).

Faceva parte della raccolta anche una grande cornice barocca in legno argentato, con luce ovale e sagoma esterna mistilinea; non sappiamo se ornava un dipinto o se, appesa ad una parete, faceva soltanto  mostra di sè come oggetto d'arte: “non la vediamo quando guardiamo il quadro” perchè “la escludiamo dal suo campo semantico” scrive Jurij Lotman in “La struttura del testo poetico”, dedicando un capitolo alla cornice, sia nel campo poetico che pittorico.

Realizzata sulla scia dei disegni ornamentali di Paolo Amato, la cornice è databile ai primi decenni del secolo XVIII.

Per evitare dispersioni della  sua raccolta - come già aveva fatto il Cordici, ma ahimè, senza risultati – lasciava, con testamento olografo del giorno 1 ottobre 1821, la  collezione ai frati conventuali di San Francesco di Erice, con l'obbligo di custodirla in una stanza fornita di tre chiavi da affidare rispettivamente al frate guardiano pro-tempore, al parroco di San Giuliano, all'erede universale del testatore.  Nel caso in cui i Francescani si fossero rifiutati di custodirla, nominava erede il Collegio dei pubblici studi, fondato dalla Congrega del Purgatorio, con la clausola che le tre chiavi fossero tenute dal Superiore della Congrega, dal prefetto degli studi e da uno dei figli o dei consanguinei del conte. Come terza eventualità, nominava custodi i Reverendi Curati  e Superiori dei Conventi, ferma restando la clausola delle chiavi “presso soggetti probi facoltandoli benanche, in caso di rifiuto, a potere trascegliere altro soggetto. Fatto sta che quella disposizione tanto saggia e filantropica non andò a sangue né dai P.P. Conventuali di S. Francesco, né dalla congrega del Purgatorio, né dei Curati e dei Superiori degli altri Conventi e però il cennato Museo d'altronde già mutilo per furti familiari, rimase in potere di Alberto Conte Hernandez figliolo e sparì quindi da Monte S. Giuliano” (Castronovo ms. XIX secolo).

Alberto trasferì infatti la maggior parte della collezione a Trapani e nella casa di Erice rimasero soltanto alcuni reperti e oggetti d'arte (Novara 1997). Castronovo riferisce di aver visto nel 1854 durante una  visita al “palagio di monte S. Giuliano... solo pochi monumenti di minor conto” (Castronovo ms. secolo XIX), in parte pervenuti, in seguito, all'attuale Museo Cordici di Erice, in parte dispersi. Dopo il 1850 il conte Alberto donò la collezione al figlio  Francesco jr. il quale “con immenso amore e solerzia, non curando spese e fatiche, l'ha totalmente arricchito da formare la compiacenza e l'ammirazione di tanti eruditi viaggiatori esteri i quali vi hanno fissato la loro attenzione”. Così scrive lo stesso conte jr. in una lettera del 18 gennaio 1887, indirizzata ad un anonimo preside, forse Astorre Pellegrini, preside del Liceo Classico di Trapani, che pubblicherà in seguito alcune epigrafi della collezione (Pellegrini 1866).

Sicuramente furono l'amore per la collezione e la preoccupazione che la mancanza di figli provocasse la dispersione della raccolta, nonchè il ricordo di esperienze familiari, ad indurre l'Hernandez a trattarne la vendita all'allora Civico Museo Pepoli; fu poi il nipote Orazio, figlio del fratello Giuseppe, che nel 1821 vendette i pezzi per la somma di £.40.000, agevolando il pagamento con dilazioni nel tempo. La data d'acquisto, riportata per tutti i pezzi negli inventari del Museo Pepoli è il 2 dicembre 1921.

Dal direttore del tempo, Antonio Sorrentino, furono subito approntate quattro nuove sale del Museo per accogliere i reperti  archeologici e dare una sistemazione più razionale a quelli già presenti al “Pepoli” (Sorrentino 1923).

Diventata così da bene privato, patrimonio pubblico, la raccolta dei conti Hernandez subì per contingenti motivi di riordino all'interno della struttura museale, l'inevitabile smembramento  e il dislocamento fra le sale e i depositi.

Gli scrittori che si sono interessati della collezione hanno fatto solo dei brevi cenni sugli oggetti d'arte in essa contenuti, indicando genericamente “vari oggetti”, come Di Ferro (Di Ferro 1825, p.135), o “una piccola raccolta di quadri”, come Mondello (Mondello 1883, pp. 67-69): lo stesso Castronovo (Castronovo ms. XIX secolo), seguendo una moda del tempo, elenca e descrive minuziosamente i pezzi archeologici ma tralascia il resto. La  mancanza di dati e di inventari non consente di stabilire quali pezzi siano stati acquistati dal conte senior e quali dallo junior; il carattere eclettico della collezione giunta al Museo Pepoli e comprendente oltre ai pezzi archeologici, dipinti, sculture, oggetti d'arte decorativa e applicata, oggetti di vario genere e curiosità, non facilita una indagine in tal senso (Novara 1997).

Il Mondello nel 1883 scrive che il conte Francesco jr. possiede “una piccola raccolta di quadri” (Mondello 1883, pp. 67-69) comprendente: una Madonna di Pietro Novelli, un San Luigi Rabatà di Andrea Carreca, una Testa d'uomo, a lume di notte, di Mariano Rossi da Sciacca, un quadro del palermitano Vito D'Anna, un altro di Antonio Manno, copie del pittore Giuseppe Mazzarese. Il Castronovo aveva già riferito di avere visto, durante una  visita effettuata nel 1854 “nel palagio Hernandez di monte S. Giuliano”, in una sala del primo piano, “una tela dipinta ad olio rappresentante il Beato Luigi Rabatà che credesi un buon lavoro di Andrea Carreca, chiarissimo pittore Drepanitano, discepolo di Pietro Novelli” (Castronovo ms. secolo XIX). Quest’ultimo quadro, con verbale del 24 febbraio 1924, fu  dato in consegna alla chiesa del Collegio di Trapani, dove tuttora si trova, come si ricava dal Registro degli oggetti conservati nei depositi del Museo Pepoli (Novara 1997).

Quest’ultimo acquistò 39 dipinti: tele, tavole, piccoli quadretti su carta e su rame, con prevalenza di soggetti religiosi, tra cui un' Epifania su pietra lavagna, con cornice di ebano e pietra, alcuni paesaggi e qualche natura morta, collocabili in un arco di tempo che va dal XVI al XIX secolo. Ritenuti forse di poco valore, furono venduti quasi tutti, tranne il già citato San Luigi Rabatà, una Sacra Famiglia (inizi sec. XVIII), un ritratto del conte Francesco Hernandez jr. (1871) e un Amorino (sec. XIX), come risulta dal già citato registro degli oggetti conservati nei depositi.

La Sacra Famiglia è ora esposta nella sala degli arredi ecclesiastici: raffigura la Vergine vestita con una tunica rossa e un manto azzurro, in posizione seduta, mentre  regge fra le braccia il figlio dormiente, a sinistra è San Giuseppe che contempla il Bambino. Per la grazia delle espressioni e le calde tonalità dei colori, l'opera si colloca nell'ambito di quella pittura sviluppatasi in Sicilia nel Settecento sulla scia del classicismo di Carlo Maratta e Sebastiano Conca, diffuso nell'isola da pittori venuti in contatto con l'ambiente romano e con i discepoli del Maratta, come Olivio Sozzi e padre Felice da San Biagio. La tela è ornata da un'elegante cornice di legno dorato, di gusto tardo-barocco, culminante in alto con una mezza conchiglia.

Il ritratto che il conte Francesco jr. nel 1871 si fece eseguire, in Trapani, dal milanese Carlo Prayer (1828-fine sec. XIX) - uno dei fondatori della “Scuola Grigia” di Genova, autore fra l'altro del ritratto di Gustavo Modena (1855), conservato presso la Civica Galleria d'Arte Moderna di Milano - è concepito secondo la tradizionale e accademica concezione che attribuisce al ritratto la funzione di diffondere l'immagine il più somigliante possibile al personaggio; il conte è raffigurato a mezzo busto, di tre quarti, su fondo nero, con lo stemma di famiglia.

La tavola raffigurante un Amorino - o meglio Cupido Dormiente con arco e faretra con frecce, sdraiato su di un drappo rosso, sotto un albero - attualmente è collocata in una delle sale della Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Trapani, dove si trova dal 1986, come deposito del Museo Pepoli. Trattasi di una copia ottocentesca  di un originale del pittore agrigentino Paolo Girgenti (secc. XVIII - XIX), probabilmente eseguita da Giuseppe Mazzarese (1755-1847), indicato dal Mondello come autore di alcune “copie” della collezione (Mondello 1883 pp. 67-69).

 Il conte Francesco jr., fu uomo colto e “intelligente in cose d'arte”; quasi certamente aveva una personalità più versatile e più aperta del nonno legatissimo  alla sua Erice e a tutto quello che ne riguardava la storia e le origini.

Francesco jr. allargò i confini  della collezione con l'acquisto di oggetti provenienti dalle zone archeologiche di Marsala, Mozia, Selinunte, come si deduce da un inventario del 1890 non più reperibile (copia in Stassi, Cardella 1985/86), dalla  corrispondenza tra il conte e studiosi del tempo e soprattutto da alcune lettere speditegli dal fratello Giuseppe, pretore di Castelvetrano, che lo infornava su alcuni  acquisti di reperti archeologici (Novara 1997).

Ricevette anche dei pezzi in dono come un'anfora proveniente da Mozia, avuta da Giuseppe D'Alì nel 1867, o alcuni frammenti di oggetti preistorici ericini donatigli da Giuseppe Polizzi, vice bibliotecario della Fardelliana di Trapani, nel 1871.

Spinto da una grande passione per il collezionismo e per l'oggetto d'arte, raccolse così nella sua casa di via Carreca 8 a Trapani, una ricca collezione che gli dava anche occasione di studio e di “sapere”; indagava infatti sui suoi pezzi, si informava, chiedeva dati e notizie, scriveva  a conoscenti, intenditori ed anche a studiosi e specialisti contemporanei.

Significative sono due lettere ricevute  in risposta a sue  richieste (Novara 1997): una inviata da Roma, in data 26 febbraio 1884, dall'archeologo Raffaele Garrucci che, congratulandosi con lui per il possesso di un Crocefisso bronzeo, “uno di quei pochi coronati con corona imperiale”, gli fornisce anche dati relativi alla cronologia del pezzo (XI-XII secolo), ed un'altra inviata da padre Bernardino Cusumano da Sciacca, in data 6 novembre 1880, con la quale il religioso comunica che Calogero Mandracchia è l'autore delle capre in cera possedute dal conte.

Poco sappiamo sull'ordinamento della raccolta che il conte definisce Gabinetto Archeologico, ma che preferiamo denominare, alla francese, Cabinet d'amateur, includendo anche gli oggetti d'arte e le curiosità. Da una copia dell'inventario del 1890 si ricava che i pezzi archeologici erano ordinati in almeno sette armadi con cassettini, fino ad un numero di ventiquattro. Nel primo armadio erano riposti prevalentemente oggetti in oro, nel secondo pietre dure e argenti, nel terzo scarabei egizi, nel quarto oggetti in vetro, ferro e piombo, nel quinto marmi, nel sesto bronzetti, nel settimo oggetti di terracotta.

Forse a Francesco jr si deve l’acquisizione del cosiddetto Trittico, indicato nell'inventario del Museo Pepoli come “pregevole lavoro del sec. XVI di Antonello Gagini” ma, verosimilmente da riferire ad un artista operante in Sicilia sulla scia lasciata da Francesco Laurana e Domenico Gagini, dai modi artigianali e accademici (Novara 1997). Consta di due rilievi raffiguranti  San Domenico e San Pietro Martire e di  una lunetta con la rappresentazione della Pietà e simboli della passione, quasi certamente non pertinente. Si ignora la provenienza dei due rilievi con i santi domenicani, la cui presenza fa ipotizzare la collocazione originaria in una chiesa dedicata a San Domenico, forse quella di Erice (ora trasformata in sala convegni del Centro di Cultura Scientifica Ettore Maiorana), o quella di Marsala (non più esistente); la chiesa domenicana di Trapani era provvista di un'icona marmorea, ora nel Museo Pepoli.

Dubito che autore dei due rilievi sia stato  Antonello Gagini, per talune durezze del modellato e qualche incertezza tecnica; propendo per uno degli scultori operanti in Sicilia agli inizi del '500, come Bartolomeo Berrettaro, Giuliano Mancino, Francesco del Mastro.

La lunetta con la Pietà  e simboli della passione - colonna, gallo, chiodi, lancia, spugna, brocca, bacile, mano - realizzati a bassissimo rilievo sulla superficie, mi fa ipotizzare la provenienza dall’icona della cappella del SS. Sacramento della Chiesa Madre di Marsala, eseguita in parte da Bartolomeo Berrettaro, in parte da Antonello e Giandomenico Gagini (Novara 1997a), e della quale il Di Marzo rileva la mancanza del frontespizio (Di Marzo 1883): dalla descrizione che lo studioso fa di esso, risulta evidente la corrispondenza con la scena rappresentata nella lunetta della collezione Hernandez. Il conte potrebbe esserne venuto in possesso dopo il crollo della cupola della Chiesa Madre di Marsala, avvenuto nel 1893, nel periodo in cui ricopriva la carica di “Regio ispettore degli scavi e dei monumenti della provincia di Trapani”.

Il trittico è stato il pezzo meglio pagato: £ 10.000, contro le 40.000 di tutta la collezione.

Poco rappresentato nella raccolta passata al Museo Pepoli è l'argento, forse perché la maggior parte degli oggetti è stata trattenuta dagli eredi per il valore del metallo; nel Museo sono conservate tre carteglorie decorate con conchiglie, volute e foglie, di gusto rococò (fine sec. XVIII), punzonate con il solo marchio dell'ignoto argentiere siciliano P. D., ed un ovale con l'effige sbalzata della Madonna e l'iscrizione MARIA VIRGO (sec. XX), recante il marchio Ao750, un oggetto al quale si può attribuire soltanto  valore  devozionale (Novara 1997).

Con cura e solerzia Francesco jr. si dedicò anche alla raccolta delle “carte” del nonno e delle sue, ordinandole in tre grandi fascicoli, ora conservati nell’archivio del Museo Pepoli: Scritture ordinate da Francesco Hernandez conte di Carrera nell'anno 1870, Miscellanea (1871), Corrispondenza e Carte relative al Regio Ispettorato di scavi e monumenti della provincia di Trapani (1880-1888).*

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  E’ vietato copiare, riprodurre o utilizzare, parzialmente o in toto, il presente testo, senza la seguente citazione bibliografica: L. Novara, Agostino Pepoli: dalle collezioni al Museo, Progetto Scuola Museo 2011-2012, La cultura della musealizzazione dall'800 ad oggi: il conte Pepoli racconta la sua storia di collezionista, Trapani, Museo Interdisciplinare Regionale ''Agostino Pepoli'',  7, 14 Marzo 2012