Il primo nome che compare
nella travagliata vicenda costruttiva del complesso di Trapani è quello
del messinese Natale Masuccio (1561?-1619)
È noto che fin dal 1565 era stato stabilito che i progetti per le nuove
sedi dovevano essere inviati a Roma per una revisione da parte del
consiliarius aedilicius
Nel 1616, quasi con un’azione di forza, il padre generale Muzio
Vitelleschi decide di dare inizio alla costruzione della chiesa ed il 2
settembre viene posta la prima pietra
La planimetria è quella
classica degli edifici gesuiti
La domanda che gli studiosi e critici si sono posti negli anni è stata: la
pianta a tre navate con serliana è del Masuccio o del Blandino?
Il pulpito è la prima grande
opera che compendia architettura, intaglio e scultura
L’anno 1655 è una data
importante nella vicenda costruttiva della chiesa
Risolto il problema della
strada, i Gesuiti si dedicano alla facciata
Dal 1707 l’architetto dei Gesuiti sarà un altro trapanese,
Giovanni Biagio Amico
I Gesuiti affidano la realizzazione della parte scultorea della cappella
di Sant’Ignazio a Tartaglio
I lavori di abbellimento
della chiesa impegnarono i Padri della Compagnia per un arco di tempo
lungo quasi centocinquanta anni
Quando nel 1766, poco prima della
espulsione, i Gesuiti decidono di abbellire la chiesa con decorazioni in
stucco ... chiamano
due tra i più noti artisti del tempo:
Bartolomeo Sanseverino per gli stucchi, e Ignazio Marabitti per l’icona
Nel 1767, il 13 novembre, si
conclude la storia della fabbrica
|
La lunga vicenda
costruttiva della chiesa del Collegio dei Gesuiti di Trapani
Lina Novara
24-05-2018 Nella lunga vicenda
costruttiva della chiesa del collegio di Trapani sono tre le date più
significative (1): 1616, 1655, 1767.
La prima, 2 settembre 1616, riguarda la posa della prima pietra per la
costruzione della chiesa.
La notizia si ricava dall’indice alfabetico dell’anno 1616/1617 del notaio
Giuseppe Testagrossa, dove si riporta che "Die secunda septembris 15^
Indictionis anno millesimo sexcentesimo decimo sexto – Fuit positus primus
lapis fundamentalis Ecclesiae Collegij Societatis Jesu huius civitatis
Drepani” (2).
L’intenzione di avviare i lavori risale alla primavera del 1616 quando i
Gesuiti cominciano ad acquistare materiali da costruzione come calce e “cantuna”.
La prima importante commissione viene fatta al trapanese Francesco lu
Mastri e riguarda sedici colonne di ordine dorico, da realizzare con la
pietra “delli Rocchi di la Barunissa”, siti dietro la vigna del convento
dell’Annunziata di Trapani; le basi ed i capitelli delle colonne dovevano
invece essere della “pietra misca rossa e bianca”, delle cave di San Vito
o del territorio di Inici; lu Mastri avrebbe inoltre dovuto eseguire
gratuitamente due fonti con piedi e “balagustri” di pietra misca (3). Nel
corso della vicenda costruttiva emerge un quadro di successione di
architetti e di progetti, di relazioni tra progettisti, maestranze e sede
generale, oltre che di committenze e di incarichi conferiti ai più noti
artisti del tempo, ai quali veniva richiesto di applicare il cosiddetto
“modo nostro” di costruire dei Gesuiti e di sviluppare, all’interno
dell’indirizzo controriformista, il programma socio-pedagogico basato
sulla catechizzazione e
sull’insegnamento. I Padri per lo più sceglievano architetti e scultori
già noti in ambito siciliano, che si erano distinti soprattutto nei lavori
di Casa Professa a Palermo, ma si rivolgevano anche a maestranze locali e
personalità di spicco, come vedremo nel nostro caso, gli architetti Pietro
Castro e Giovanni Biagio Amico, e gli scultori Giuseppe Milanti e Giacomo
Tartaglio. Il primo nome che compare nella travagliata vicenda costruttiva
del complesso di Trapani è quello del messinese Natale Masuccio
(1561?-1619), al quale la maggior parte della storiografia e della critica
ha riferito la paternità del progetto originario della chiesa (4).
Architetto ufficiale della provincia siciliana dell’ordine, Masuccio a
Messina aveva osservato le opere di Andrea Calamech e di Camillo
Camilliani e, a Roma, quelle di Giacomo della Porta e Giacomo del Duca;
attraverso Bartolomeo Ammannati e Giuseppe Valeriani aveva appreso il
“modo nostro” di costruire dei Gesuiti, orientandosi verso forme barocche.
Il “modo nostro” non era una concezione unitaria e programmatica
dell’architettura e della decorazione di tutti gli edifici dell’ordine, ma
una serie di principi base di cui si servivano i superiori della Compagnia
nel valutare il rapporto tra mezzi e fini e nel considerare tutte le arti
quali creature in grado di condurre l’uomo a Dio. Lo schema planimetrico
che la Compagnia definiva “modo nostro” era quello che mirava a rendere
collegate e organizzate, pur nella loro autonoma funzionalità, le tre
parti dei complessi edilizi, formati dall’area scholarum, destinata alle
scuole, dall’area collegi per i religiosi e dalla chiesa. Fu questo lo
schema del Collegio di Messina, progettato dal Masuccio nel 1608, che
divenne il modello per tutti gli altri che sarebbero stati costruiti
nell’isola, caratterizzati dalla presenza di due cortili e delle scale
all’incrocio dei tre corpi di fabbrica. Da fonti documentarie si deduce
con certezza che il Masuccio era stato a Trapani per effettuare un
sopralluogo e definire la pianta della città che egli stesso nel 1614, una
volta ultimata, avrebbe personalmente consegnato al Padre provinciale a
Palermo. Del Masuccio non possediamo disegni autografi ma in una lettera
inviata al padre generale egli si dichiara autore della Veduta a volo
d’uccello mostrante il sito del Collegio del 1613 ca.: in essa così si
legge ho procurato fare uno schizzo sopra il pensiero della mutanza del
Collegio di Trapani et a migliore intelligenza ho fatto anche il cospetto
di essa città e strade (5). Si tratta di una pianta della città murata di
Trapani dove sono disegnate le principali chiese, le mura e il porto. Per
la sede centrale di Roma era importante la scelta dei siti dei collegi, da
collocare in posizione rilevante nel contesto urbano, in funzione del
sole, delle vedute e delle altre chiese sulle quali si voleva avessero la
preminenza; era per questo che gli architetti, oltre alla pianta del
complesso edilizio, provvedevano a disegnare, come nel nostro caso, la
pianta della città.
È noto che fin dal 1565 era stato stabilito che i progetti per le nuove
sedi dovevano essere inviati a Roma per una revisione da parte del
consiliarius aedilicius, alla cui approvazione era subordinata quella del
Padre Generale.
Già nel 1596 Giuseppe Valeriani, consiliarius aedilicius dell’ordine,
aveva espresso un suo qualificato parere riguardo la scelta del sito da
destinare alla chiesa trapanese, sostenendo che essa doveva essere
costruita “in testa all’isola che è verso la Loggia, dove è certo
magazzino della Corte” che si riteneva fosse “il più bel luogo della
città” (6).
Ma la scelta del sito aveva determinato contrasti e malumori con il Senato
Trapanese, con i Carmelitani e con gli stessi cittadini, contrasti che fin
dal 1596 i Padri cercavano di superare.
Il problema più rilevante era la presenza di una strada che, dalla porta
di levante della chiesa di San Lorenzo, giungeva all’attuale via Torrearsa
impedendo il collegamento dei tre edifici e ostacolando l’allungamento
della chiesa e la realizzazione della zona absidale. La questione era
andata avanti per molto tempo tra richieste da parte dei Gesuiti e
dinieghi da parte del Senato cittadino.
Una notazione apposta nella lettera inviata dal Masuccio al padre generale
sottolinea che era indispensabile un ponte scavalcante la strada.
Nel 1614 era arrivato a Trapani anche padre Tommaso Blandino come
consulente di fabbrica e aveva anche presentato un suo progetto.
Nel 1616, quasi con un’azione di forza, il padre generale Muzio
Vitelleschi decide di dare inizio alla costruzione della chiesa ed il 2
settembre viene posta la prima pietra (7).
Quando finalmente iniziano i lavori di costruzione, l’architetto della
Provincia sicula Natale Masuccio, per controversie con il padre generale,
lascia la Compagnia.
Lo sostituisce, nella carica, padre Tommaso Blandino da Mineo (1583-1629)
che eredita buona parte delle opere iniziate dal suo predecessore e, a
Trapani, dirige i lavori della chiesa proponendo un suo progetto.
Non potendo disporre dello spazio occupato dalla strada Blandino è
costretto a modificare la zona absidale con la collocazione di questa nel
transetto, e successivamente (1621) appronta il disegno della decorazione
delle cappelle con “diversa mistione di marmi” (8).
Blandino porta a compimento la chiesa “nel rustico” nel 1622, anno in cui,
viene aperta al culto sebbene con la navata destra incompleta (9).
Una pianta del 1631, non firmata, rimanda probabilmente al progetto
originario del complesso edilizio, che veniva proposto sotto riserva di
potere disporre della strada (Prima pianta del Collegio di Trapani) e
senza la definizione della chiesa (10).
La planimetria è quella classica degli edifici gesuiti: chiesa, collegio
(area scholarum), casa dei religiosi (area collegi).
Un’altra pianta, approvata il 14 agosto 1631 dal Padre Generale
Vitelleschi, mostra lo stato dei lavori e la planimetria della chiesa
lievemente trapezoidale, senza transetto, con tre navate separate da
colonne, “a gruppi di 2 a 2”, destinate a reggere alternativamente archi e
segmenti di architrave, dando vita ad un motivo a serliana; le “cappelle
laterali dovevano essere separate da postazioni di confessionali; il coro
a capocroce, piatto fiancheggiato da due cappelle coperte ciascuna da una
piccola cupola” (11).
Viene qui applicato lo schema planimetrico che
suddivide in tre navate lo spazio. Esso è costituito da archi collegati a
due a due con architravi laterali di misura più piccola, realizzati
mediante un sistema, teorizzato da Serlio nel secolo XVI e dal suo nome
detto “a serliana”.
La domanda che gli studiosi e critici si sono posti negli anni è stata: la
pianta a tre navate con serliana è del Masuccio o del Blandino?
Alla luce di fonti documentarie individuate da Maria Rita Burgio
sembrerebbe che la pianta vada riferita al Blandino il quale la utilizzerà
in seguito anche per le chiese di Catania e Termini Imerese (12).
Essa mostra molte affinità con il progetto per la chiesa del Collegio di
Catania che già nel 1610 si prevedeva di costruire “nel piano della Fera
Nova,” e che venne in seguito approvato il 2 maggio 1624 (13). La chiesa
non fu mai costruita e la pianta venne poi utilizzata nel 1698 per la
ricostruzione della ex chiesa gesuitica che corrisponde a quella odierna
di San Francesco Borgia, con tre navate a serliana il cui disegno viene
attribuito al Blandino.
Se riferire a Masuccio o a Blandino la pianta di Trapani è una questione
che rimane tuttavia aperta e che merita un successivo attento esame.
Proseguendo nei lavori, nel 1630, i Gesuiti si attrezzarono per dare
inizio alla fabbrica del nuovo collegio con contratti per la fornitura di
materiali da costruzione e mano d’opera, cui ne seguirono altri, negli
anni successivi, per la pietra di intaglio delle “pirrerae della Forgia”,
per i cantoni di Marsala, per gli scalini di “pietra palazzo”, le colonne
della stessa pietra”, o della montagna “di li Bicci”, e per le “chiappe di
Favignana” (14).
I lavori nella struttura portante della nuova chiesa erano probabilmente
completati quando, il 13 di giugno del 1638, pur persistendo ancora la
mancanza del cappellone, il Vescovo di Mazara, Cardinale Giovan Domenico
Spinola, consacra la chiesa con una solenne funzione religiosa e consegna
al Rettore del Collegio P. Paolo Belli le reliquie di San Lorenzo e di
altri compagni martiri, contenute “in un vaso d’argento” e da riporre nel
“sepulcro” dell’altare maggiore, alla presenza di molti religiosi (15).
Si procede quindi al completamento delle cappelle absidali ed in quella di
Sant’Ignazio interviene nel 1650 l’architetto del Senato palermitano
Mariano Quaranta, al quale si deve anche il disegno del pulpito e del
paliotto con coralli.
Il pulpito è la prima grande opera che compendia architettura, intaglio e
scultura e fu eseguito a Palermo tra il 1650 e il 1654, assieme al
“cappello” ligneo, e ad eccezione del piedistallo, realizzato a Trapani
circa cinquant’anni dopo (16).
Esso riproduce il modello di quello di Casa Professa (lavorato a Genova)
ed è opera dei maestri palermitani Francesco Scudo (o Scuto) e Nunzio La
Matina (17).
La tribuna, a marmi mischi, è decorata con motivi del repertorio
manierista - festoni, volute, conchiglie, testine di cherubini - gli
stessi che ritornano, a rilievo, nel baldacchino ligneo con colomba
centrale, imitante il cassettone di un soffitto.
Nel maggio del 1655, su richiesta del rettore, arriva a Trapani
l’architetto Francesco Bonamici “per vedere le fabbriche del … Collegio e
della chiesa”, per progettare interventi sulla volta e sulle finestre e
per fare “li disegni… della facciata” sia della chiesa che del collegio,
oltre che del tabernacolo del SS. Sacramento; disegni che nell’agosto del
1655 l’architetto avrebbe poi messo “in ordine” a Malta e che da lì
avrebbe spedito a Trapani (18).
In segno di riconoscenza per la visita, il Bonamici ricevette in dono dai
Padri Gesuiti una statuetta in alabastro raffigurante la Madonna di
Trapani.
Non sappiamo di quale tabernacolo si tratti, né possiamo essere certi che
sia lo sportello in argento che si conserva al Museo Pepoli, sul quale è
sbalzato e cesellato un simbolico angolo di giardino con pergolato,
rappresentato in rigorosa prospettiva; al centro è posta una fontana sulla
quale si erge la figura di Cristo, qui visto come fonte di vita nella
Redenzione e nell’Eucarestia.
Autore è stato un argentiere palermitano, come dimostra il marchio della
città di Palermo – un’aquila a volo basso e la sigla RUP (Regia Urbs
Panormi) – del quale è leggibile la sola lettera R. L’altra sigla,
incompleta, della quale si intravede soltanto la F, non consente di
identificare con certezza l’argentiere o il console, in quanto la lettera
potrebbe riferirsi a più maestri attivi nella seconda metà del secolo XVII
o agli inizi del XVIII, tra cui i Francesco Arbizola, Bracco, Gargano,
Grasso, Rivelo, Taibi (19): lo sportello potrebbe essere stato realizzato
sotto il consolato di Francesco Bracco (1706).
Nessuna specifica indicazione può indurre a credere che “lo disegno per lo
Tabernacolo da farsi al Santiss.o Sacramento in Chiesa Nostra” che
l’architetto Bonamici, dopo la venuta a Trapani nel maggio 1655, stava
“mettendo in ordine”, possa riferirsi all’oggetto in esame (20); non
essendo indicato nel documento il materiale, si potrebbe anche ipotizzare
che si trattasse della struttura di tutto il tabernacolo e non del solo
sportello d’argento.
La tipologia della fontana, in verità, rimanda più specificatamente a
modelli già adottati nella prima metà del secolo XVII da Vincenzo La
Barbera, esperto nel disegno d’architettura e nell’arte di creare fontane,
come si rileva nella “Sala del Magistrato” del Palazzo Senatorio di
Termini Imerese (1606) e nel progetto eseguito nel 1635 con Mariano
Smiriglio per la fontana marmorea di S. Antonino a Palermo (oggi in piazza
A. Gentili), conservato presso la Galleria Regionale della Sicilia di
Palazzo Abatellis a Palermo (21). La figura di Cristo, collocata nella
vasca superiore, rimanda invece alla fontana del Collegio Massimo dei
Gesuiti di Palermo, eseguita su disegno di Angelo Italia nel 1692, mentre
il motivo della conchiglia, facente parte del repertorio decorativo degli
architetti Paolo e Giacomo Amato, è costantemente utilizzato nelle arti
decorative siciliane del periodo barocco (22).
I Gesuiti di Trapani, già nel 1653 avevano fatto realizzare un primo
tabernacolo d’argento a Messina, città alla quale erano particolarmente
legati in quanto vi aveva sede il loro Collegio Primario. Da Messina
provengono il calice e l’ostensorio d’oro, ora conservati al Museo
Regionale Pepoli, eseguiti intorno al 1681-82 nella bottega di Pietro
Juvara, considerato il “Cellini della Sicilia”, in collaborazione con i
figli Eutichio e Sebastiano, come si legge nelle iscrizioni incise a
bulino (23).
L’anno 1655 è una data importante nella vicenda costruttiva della chiesa:
il 23 agosto, dopo più di 60 anni di richieste, i Gesuiti finalmente
ottengono dal Senato di Trapani la chiusura della strada che dalla porta
di levante della chiesa di San Lorenzo, giungeva all’attuale via Torrearsa,
ostacolando l’allungamento dell’edificio e la realizzazione della zona
absidale. Dietro un contributo in denaro, ufficialmente destinato ai
lavori di restauro del palazzo Senatorio, i Padri della Compagnia
ottennero quanto richiesto e poterono finalmente iniziare le opere di
ampliamento e di trasformazione della zona absidale con le cappelle di
Sant’Ignazio e di San Francesco Saverio, oltre che collegare il collegio,
la casa dei religiosi e la chiesa, in modo da creare un unico complesso
(24).
Chiusa la strada si eliminarono infatti i cosiddetti ponti, o meglio
cavalcavia, che consentivano il passaggio e il collegamento ai tre corpi
di fabbrica.
Risolto il problema della strada, i Gesuiti si dedicano alla facciata.
Secondo quanto riportato da una cronaca manoscritta da padre Stanislao
Alberti (fine secolo XVII), fu iniziata nel 1657 su disegno di Francesco
Bonamici (1596-1677), valentissimo ingegnere, operante a Malta nella
chiesa del Gesù che, nel maggio del 1655, come già detto, era stato a
Trapani anche per fare “li disegni… della facciata” sia della chiesa che
del collegio (25).
La cronaca ci informa inoltre che i lavori della facciata, iniziati “nella
porta grande e le piccole ai lati di lei”, si protrassero fino al 1661 e
si conclusero “nella Settimana Santa con ammirazione di tutti”.
Alberti fa il seguente commento: “è veramente magnifica”. Questa
affermazione lascerebbe intendere che a quella data tutta la facciata era
stata completata.
La storiografia ha dibattuto, e dibatte tuttora, sul progettista della
facciata, così come per la pianta della chiesa, attribuendola ora a
Masuccio, ora a Blandino, ora a Bonamici. Come oggi la vediamo essa si
esprime con un linguaggio “prebarocco”, nuovo nel panorama locale, anche
se non privo di influenze manieristiche che si associano a motivi
decorativi tradizionali, presenti nel barocco europeo, quali puttini,
teste di cherubini, derivati dal culto dell'infanzia, fiori e frutti,
riguardanti l'imitazione della natura, assieme ad elementi di carattere
laico, come mascheroni e figure muliebri.
L’ordinato telaio di paraste e lesene semplici e binate, distribuite su un
doppio ordine, che rimanda a molte chiese tardo-cinquecentesche romane,
qui assume un risalto nuovo e vibrante.
Il primo ordine è arricchito dal gioco di tre portali in calcare marmoreo
grigio, e dalle bizzarre mostre figurate degli oculi.
Il mediano, più ampio e più alto, è sormontato da due angeli che reggono
lo stemma mariano così come in altre chiese gesuitiche, ad esempio quella
di Caltagirone.
Una doppia cornice, formata da un fregio di memoria dorica, ed una fascia
con motivi geometrici e mascheroni, concludono il primo ordine e segnano
il passaggio al secondo, meno affollato ma più incisivo con taluni spunti
barocchi, seppur ancora legato al repertorio manieristico, che fa
propendere ad una diversa interpretazione figurativa, e ad una
attribuzione al Bonamici.
Questo secondo ordine si sviluppa in funzione dell’altezza della navata
centrale, con una zona saliente, ritmata da quattro lesene aggettanti.
Due grandi volute raccordano l’altezza della navata centrale a quelle
laterali, riproponendo la quattrocentesca soluzione compositiva adottata
da Leon Battista Alberti nella facciata di Santa Maria Novella a Firenze,
poi applicata da Carlo Maderno nella chiesa di Santa Susanna a Roma.
L’impostazione complessiva della facciata rimanda comunque a modelli
teorizzati da Serlio nel secolo XVI.
Pur tenendo presente che fonti manoscritte ci danno la certezza che
Bonamici era stato a Trapani per approntare i disegni della facciata,
resta il dubbio sulla possibilità che questi l’abbia disegnata per intero
o abbia modificato, solo in parte, un progetto originario riferibile,
almeno per l’ordine inferiore, ad altro architetto.
A chi spetti l’ideazione della facciata o parti di essa - a Masuccio,
Blandino o Bonamici- è una questione che non può che rimanere aperta e che
è suscettibile di approfondimenti.
A Trapani tuttavia ritornano taluni motivi presenti nella facciata del
Gesù di Malta, che a sua volta aveva visto avvicendarsi gli stessi
architetti Masuccio, Blandino e Bonamici; ritornano le due grandi volute
con attiguo piedistallo, in posizione analoga, il finestrone (a Malta
inquadrato da mascheroni di profilo e grottesche), il fregio dorico, i
festoni con foglie e frutti.
Al di là del problema della attribuzione, la vistosa facciata si impone
nel panorama dell’architettura trapanese del secolo XVII per le novità del
suo linguaggio, vigoroso e dinamico insieme, contraddistinto dagli aggetti
delle membrature architettoniche e dai chiaroscuri provocati dalle
cornici, dagli intagli e dalle volute (26).
Nella vicenda costruttiva della chiesa, nel 1694, compare il nome di
Pietro Castro, sacerdote, architetto trapanese, già conosciuto dall‘Ordine
per aver eseguito nel 1675 dei disegni per la decorazione in marmi mischi
della cappella di Sant’Ignazio, nella chiesa del Gesù a Palermo (27).
A Trapani invece è il progettista delle chiese del Purgatorio,
dell’Addolorata e dell’Itria e in quest’ultima, ispirandosi alla chiesa
gesuitica, adotta il motivo della serliana. Castro lo troviamo impegnato
nella direzione dei lavori del collegio e nei disegni per le colonne di
esso.
Dal 1707 l’architetto dei Gesuiti sarà un altro trapanese, Giovanni Biagio
Amico, anch’egli sacerdote, che presso la biblioteca della Compagnia di
Trapani aveva studiato trattatistica classica e testi di architettura e di
matematica.
La presenza dell’Amico sarà costante per diversi anni e lo vedremo
impegnato sia nella sistemazione delle cappelle di Sant’Ignazio e di San
Francesco Saverio che nell’apparato decorativo.
Giovanissimo inizia a disegnare, infatti, ornamenti e arredi sacri, quali
la base del pulpito, la balaustra del fonte e la scalinata dell’altare
maggiore, tutti lavori documentati nell’anno 1707 (28).
Per la tribuna del pulpito, eseguita a Palermo, come già detto, progetta
il pilastro di sostegno con “4 arpij negli angoli e…4 evangelisti nelle
facciate, tutto bene incastrato, su uno zoccolo di pietra del Rizzuto
incastrato di pietra del libeccio”, lavori che verranno eseguiti da Giovan
Battista Lombardo (29). Il pilastro di sostegno ha infatti un aspetto più
barocco rispetto alla manieristica tribuna e presenta quattro grandi
volute che dallo zoccolo salgono fino alla base di questa, accogliendo,
nel loro sviluppo, quattro mezze figure rispondenti più all’iconografia
dei telamoni che a quella delle arpie, indicate nel documento.
Non va dimenticato che il motivo dei telamoni è presente in altre opere
dell’Amico: li ritroviamo infatti nel progetto della chiesa
dell’Annunziata di Trapani, sopra la trabeazione, e, nella stessa
posizione, sul prospetto architettonico del paliotto d’argento, conservato
al Museo Regionale Pepoli, il cui disegno viene attribuito all’Amico (30).
Nel 1714 ha l’incarico di decorare la cappella di Sant’Ignazio, a spese
del gesuita Vito Scafidi “il quale per gli abbellimenti di questa cappella
diede in dote i suoi beni stabili con l’obbligo che, ultimati i lavori di
essa si procedesse ad ornamentare la cappella di San Francesco Saverio”
(31).
Amico rimodella il vano quadrangolare con l’inserimento di colonne
d’angolo e sceglie per le pareti un rivestimento appiattito: memore delle
architetture del Bernini e del Fontana, concepisce la decorazione in senso
classicistico, basandosi sull’effetto plastico, procurato da colonne,
cornici, timpani, fregi, e su quello cromatico dei marmi. Tra colonne di
rosso libeccio, poggianti su alti plinti, include l’altare sovrastato, a
sua volta, da due colonne tortili che reggono un timpano spezzato.
Il libeccio è il marmo che Amico era solito usare e, come lui stesso
scrive ne L’Architetto Prattico (32), quello che “porta insieme vari
colori, rosso, verde, bianco violato, onde è simile al diaspro” che si
estraeva nella zona di Custonaci.
A proposito delle colonne tortili Amico riferisce che “le colonne tortili
o storcellate sono più ricche che sode non potendo servire che per solo
ornamento non essendo atte a sostenere altro che gli ornamenti…”.
Nello stesso trattato, “fra le opere di architettura ideate dall’Autore…
nella città di Trapani” è indicata anche la monumentale custodia lignea
“dell’Altare maggiore de’ P.P. Gesuiti”, che Amico disegnò nel 1714.
Nel capitolo del trattato dedicato ai marmi, Amico indica che nelle
vicinanze di Trapani “si trova un altro marmo bianco, molto tenero di
piccola grandezza, che dicono alabastro…di cui se ne lavorano piccole
figurine, sopra che sono eccellenti i scultori della mia patria” (33).
Tra questi scultori era Giacomo Tartaglio (1678-1751), amico
dell’architetto, tanto da essere stato nominato suo esecutore
testamentario. Egli lavorava indistintamente il marmo, l’alabastro e la
“pietra incarnata”, ottenendo opere cariche di espressione e naturalismo.
I Gesuiti affidano la realizzazione della parte scultorea della cappella
di Sant’Ignazio a Tartaglio che troviamo accanto all’architetto Amico nel
1714 per “lavorare” in alabastro le statue, le medaglie, i puttini e “le
storie” di Sant’Ignazio nella omonima cappella (34).
Nell’eseguire le sculture egli interpreta il disegno dell’Amico con gusto
settecentesco e padronanza tecnica, non dimenticando l’eleganza e
l’equilibrio classici: raffigura aggraziati putti, ritti, seminudi, e in
atteggiamenti diversi; dispone gli angeli reggiteca, a coppia, quasi
affrontati, in posa seduta; tratta il rilievo degli episodi della vita del
Santo in modo delicato; anima con la policromia i volti dei sei busti
reliquiari (4 di Sante e 2 di Santi), poggianti su piedistalli.
“Il di lui scalpello venne indi impiegato dai padri della compagnia di
Gesù per un simulacro di marmo di S. Rosalia Vergine Palermitana…che
dovevasi situare sotto alla mensa del primo altare di sinistra nella
chiesa del loro collegio” (35). La raffinata opera in alabastro raffigura
la santa avvolta in un morbido panneggio, realisticamente distesa, secondo
l’iconografia diffusa nel secolo XVII; vi sono incise la firma e la data:
Giacomo Tartaglio, a ’24 xbre 1717.
Nella vicenda costruttiva del complesso gesuitico, dopo la morte
dell’Amico, avvenuta nel 1754, compare il nome di Paolo Rizzo, discepolo
dello stesso Amico, regio ingegnere, anch’egli sacerdote, per il calcolo
dei pilastri delle navate (1761): a lui si deve inoltre il disegno della
famosa incisione di Antonio Bova col “Prospetto della Chiesa e Collegio di
studj de P.P.Gesuiti di Trapani”, pubblicata nel 1761 da Leanti in “Lo
stato presente della Sicilia” (36).
Accanto agli architetti operò una folta schiera di maestranze – muratori,
falegnami, scalpellini – i cui nomi più ricorrenti negli atti notarili
sono Artale, Romano, Arceri, Bonsignore, Lombardo.
Un ruolo importante ebbero gli scultori lapicidi e intagliatori ai quali
si deve l’apparato decorativo della chiesa, rimasti in ombra per il ruolo
assunto dagli architetti che avevano il compito di redigere i disegni da
sottoporre, comunque, all’approvazione del rettore e, se trattavasi di
progetti, del Padre generale ed anche del consiliarius aedilicius.
I lavori di abbellimento della chiesa impegnarono i Padri della Compagnia
per un arco di tempo lungo quasi centocinquanta anni, considerato che le
prime notizie riguardanti la decorazione delle cappelle con “diversa
mistione” di marmi e con “balate intrizzate di mischi” si hanno nel 1621 e
che Sanseverino completò gli stucchi della navata centrale nel 1766, poco
prima della espulsione dei religiosi (37).
Quella che domina all’interno della chiesa è la decorazione, eterogenea
nei materiali ma omogenea nelle finalità di meravigliare lo spettatore e
di coinvolgerlo emotivamente.
Lastre con tarsie policrome di marmi locali – “mischio di libeccio”,
pietra Palazzo, pietra bianca “delli Scurati”, o “arrossata della
Colombara” – a campitura piatta, composta da esuberanti motivi barocchi
floreali, vegetali e volute, pannelli a rabischi con rilievi di gusto
rococò, conchiglie, cornucopie, riccioli e cherubini, altorilievi lavorati
a tramischi, ricoprono, come una sorta di horror vacui, pareti e altari
della chiesa, concorrono a rendere più simbolico il significato
dell’architettura e creano quello “stupore persuasivo” che è uno dei
principali aspetti dell’arte barocca e, nello stesso tempo, un intento
pedagogico-sociale dei Gesuiti.
Ovunque ricorrono emblemi e simboli e spesso tra i marmi si inseriscono
scudi e cartigli con la sigla adottata dai Gesuiti IHS (Iesus Hominum
Salvator) e l’iniziale di Maria (M).
Marmi policromi, in parte provenienti da Genova, arricchiscono anche
l’originale altare, definito nell’inventario del 1767 “alla romana” (38);
altre pregiate pietre dure e lapislazzuli compaiono sul settecentesco
tabernacolo dalla ricca cornice dorata, che circonda lo sportello sul
quale è applicata la figura del Buon Pastore, e dalla quale scendono
simbolici mazzi di spighe e grappoli d’uva.
Quando nel 1766, poco prima della espulsione, i Gesuiti decidono di
abbellire la chiesa con decorazioni in stucco e di sostituire la tela
dell’Immacolata di Geronimo Gerardi, posta sull’altare maggiore, con
un’icona marmorea, chiamano
due tra i più noti artisti del tempo:
Bartolomeo Sanseverino per gli stucchi, e Ignazio Marabitti per l’icona
(39).
Sanseverino, allievo di Giacomo Serpotta, interpretando in chiave rococò
gli insegnamenti del maestro, esegue nella navata centrale un ciclo di
decorazione plastica con personaggi biblici, putti, testine di cherubini,
motivi vegetali e floreali, mentre nell’abside raffigura la Trinità in
gloria e sull’arco trionfale ancora angeli e testine di cherubini che
accompagnano un lungo cartiglio; all’altezza della cantoria pone la firma
e la data: BARTH. SANSEVERINUS PAN. ARCHITECTUS ET PLASTES 1766.
Va rilevato, a proposito delle tematiche delle immagini, che la cosiddetta
“controriforma devozionale” affidava ad esse finalità didattiche e
pedagogiche, preferendo i temi della redenzione e della storia biblica e
quelli che affermavano le tesi cattoliche: la Trinità, l’eucaristia,
immagini di Maria e dei Santi. I Gesuiti diedero ampia diffusione al tema
dell’Immacolata, alla quale la chiesa di Trapani è dedicata, come attesta
la lapide posta nella controfacciata, e al tema dei Santi della Compagnia,
soprattutto Ignazio e Francesco Saverio, canonizzati nel 1622, che
costituivano per l’ordine anche motivo di propaganda e di affermazione.
Marabitti, già autore per i Gesuiti di Catania di una pala d’altare in
marmo, era uno “scultore alla moda” che a Roma aveva appreso il linguaggio
tardo barocco e conosceva i rilievi del siciliano Serpotta: memore anche
dell’altorilievo romano di Francesco della Valle, in Sant’Ignazio, esegue
l’icona di Trapani con la stessa tecnica, secondo la nuova tipologia da
lui stesso introdotta in Sicilia. Dentro una cornice, superiormente
mistilinea, sviluppa il tema della Immacolata Concezione in gloria,
riempiendo tutta la superficie del marmo con raggi, testine di cherubini,
fiori, angeli e nubi, che in taluni punti debordano dalla stessa cornice,
senza però tralasciare gli attributi iconografici. In basso a destra
inserisce il suo nome e la data: IGNATIUS MARABITTI PAN. INV. ET SCULP.
ANNO MDCCLXVI.
Nel 1767, il 13 novembre, si conclude la storia della fabbrica ed inizia
un’altra storia: quella fatta di espulsioni, espropri, abbandoni, di altre
destinazioni d’uso dei locali del collegio, e, dal 1963, di chiusura della
chiesa durata 40 anni; una storia di restauri iniziati e non completati.
Finalmente nel 2003 la chiesa riapre e da allora è stato un continuo
cantiere di restauro.
La data 4 maggio 2014 resterà nella storia della chiesa come la data della
“riconsegna del monumento alla città dopo il suo restauro” (40).
NOTE
1. Mi è stato possibile
ricostruire la lunga storia della fabbrica della chiesa del Collegio di
Trapani grazie alle numerose fonti documentarie fornitemi, nel 2006, dal
compianto dott. Antonio Buscaino, al quale rivolgo un grato pensiero ed al
quale va il merito di avere raccolto, dopo una ricerca scrupolosa e uno
studio attento, nel volume I Gesuiti di Trapani (Trapani 2006), per la
prima volta insieme, numerosi documenti d’archivio, in gran parte inediti
o poco noti. Si veda pertanto L. Novara, La Chiesa e il collegio. Dal
documento al monumento, in A. Buscaino, I Gesuiti di Trapani, Trapani
2006, pp. 275-293, dal cui saggio è tratta gran parte del presente testo,
ed al quale si rimanda per la bibliografia completa.
2. AST (Archivio Senato Trapani), not. G. Torregrossa, Bastardello
alfabetico 1616/1617.
3. AST, not. G. Torregrossa, atti del 9,10, 12/4/1616, 27/6 e 11/8/1616.
4. Per Natale Masuccio si vedano, tra l’altro: S. Boscarino, L’Architetto
messinese Natale Masuccio, in Quaderni dell’Istituto di Storia
dell’Architettura della Facoltà di Architettura di Roma, 1956, 18, pp.
8-20; M.C. Ruggieri Tricoli, Masuccio Natale, in L. Sarullo, Dizionario
degli Artisti Siciliani, Architettura, vol. I, Palermo 1993, ad vocem.
5. ARSI (Archivium Romanorum Societatis Iesu), Sicilia, Lettera del
28/2/1613, vol. 195, f. 161.
6. Per le piante qui citate si veda Vallery-Radot Jean, Le recueil de
plans d’édificies de La Compagnia de Jesus conservé a la Bibliotheque
National de Paris, Institutum Historicum Societatis Jesu, Roma 1960.
7. ARSI Sicilia, vol.195, cc.119,120,121; A. Buscaino, I Gesuiti…, cit.,
Cap.I, nota 30.
8. A.S.T. not. G. Russo, atto 28/11/1633; A. Buscaino, I Gesuiti…, cit.,
Cap.II, nota 23.
9. Per Tommaso Blandino si vedano tra l’altro: M.C. Ruggieri Tricoli,
Blandino Tommaso, in L. Sarullo, Dizionario... Architettura, cit., vol. I,
ad vocem; F. Salvo S.J., Formazione e fervore missionario nei collegi dei
Gesuiti in Sicilia, in Atti del convegno Scienziati siciliani gesuiti in
Cina nel secolo XVII, a cura di A. Luini, ottobre 1983; Idem, Il IV
centenario di Casa Professa di Palermo, in Ai nostri Amici, marzo-aprile
1983.
10. Per le piante si veda A. Buscaino, I Gesuiti…, cit., pp.108-116.
11. J. Vallery-Radot, Le recueil…, cit., pianta n. 290.
12. M. R. Burgio, Il Complesso gesuitico di Trapani: tradizione
storiografica e nuove attribuzioni, in Lexicon, n. 3, 2006, pp 19-28.
13. Si vedano S. Boscarino, L’Architetto…, cit., p.19, fig.27. Idem,
Sicilia Barocca, Roma 1997, p. 106; A.I. Lima, Architettura e urbanistica
della Compagnia di Gesù in Sicilia, Palermo 2001, p. 115, fig. 82, tav.
XLIII.13. A.S.T. not. G.Russo, atti 20/8/1633 (A. Buscaino, I Gesuiti…,
cit., Cap. II, nota 21) e 22/9/1633 (A. Buscaino, I Gesuiti…, cit., Cap.II,
nota 22), A.S.T. not. G. Testagrossa, atto 26/2/1635 (A. Buscaino, I
Gesuiti…, cit., Cap. II, nota 24), atto 10/7/1636 (A. Buscaino, I
Gesuiti…, cit., Cap. II, nota 32).
14. Si veda A. Buscaino, I Gesuiti…, cit., pp. 78 -88.
15. AST, not. G. Testagrossa, atto del 13/6/1638.
16. A. Buscaino, I Gesuiti…, cit., pp.102-104, Cap. II, nota 62; AST
C.R.S. L.M. (Archivio Stato Trapani - Corporazioni Religiose Soppresse -
Libri Mastri), nn. 173, 177, 179.
17. Francesco Scudo (o Scuto), autore di lavori di intaglio per Casa
Professa, nel 1648 collaborava con Nunzio La Matina per la decorazione
della cappella senatoria dell’Immacolata, nella chiesa di San Francesco a
Palermo. Secondo, quanto riferito da padre F. Salvo, durante una
comunicazione orale al convegno su “Leonardo Ximenes”, tenutosi a Trapani
nel 1988, lo Scuto avrebbe disegnato la cappella di San Luigi (1667-68) ed
eseguito, assieme ai figli, nel 1671, i quattro pilastri con gli elementi
aria, fuoco, terra, acqua, su disegno di Francesco La Barbera che, a sua
volta, aveva disegnato i quattro pilastri della chiesa del Gesù di
Palermo. Il nome di Francesco La Barbera viene riportato per la chiesa di
Palermo da A.I. Lima, Architettura…, cit., p. 44, con relativa
documentazione. A Scuto padre Salvo attribuiva inoltre dei lavori nella
cappella dei tre Santi martiri (1673) e nella cappella di San Francesco
Saverio (1674) della chiesa di Trapani. Si veda: I. Bruno, Scuto
Francesco, in L. Sarullo, Dizionario degli Artisti Siciliani, Scultura,
vol. III, Palermo 1994, ad vocem; V. Scavone, La Mattina Nunzio, ivi, ad
vocem. Si vedano inoltre A.S.T. not. M. Di Blasi, atti: 20/1/1707 (A.
Buscaino, I Gesuiti…, cit., Cap. II, nota 47), 17/3/1707 (A. Buscaino, I
Gesuiti…, cit., Cap. II, nota 49), 3/9/1707 (A. Buscaino, I Gesuiti…, cit.,
Cap.II, nota 50).
18. S. Alberti, Historia Sacra, ms. Archivio Casa Professa Palermo, pp.
294-295. La notizia inedita del disegno del Bonamici, fornitami da padre
F. Salvo, è stata da me riportata in AM. Precopi Lombardo, L. Novara,
Trapani, Marsala 1988, p. 46, e successivamente in L. Novara, La chiesa
del Collegio a Trapani, “Beni Culturali dell’VIII distretto” a cura del
Lions Club di Cefalù, 1990, scheda n.7; a questa seguono il contributo
documentario di D. Scandariato, Il paliotto in corallo…, cit., pp. 50-54,
e l’attribuzione di V. Scuderi, Architettura ed architetti barocchi del
trapanese, Marsala 1994, p.18, nota 86. Su Bonamici si veda: G.B.
Bongiovanni, Bonamici Francesco, in L. Sarullo, Dizionario...,
Architettura, cit., vol. I, ad vocem.; A. De Lucca, C. Tacke, The genesis
of Maltese Baroque Architecture: Francesco Bonamici (1596-1677), Malta
1994. Inoltre: A.S.T. C.R.S. L. M. (Libri Mastri del Collegio Gesuitico di
Trapani), nn. 179 e 183; A. Buscaino, I Gesuiti… cit., Cap. II, note 65 e
68; D. Scandariato, Il paliotto in corallo..., cit., p.54, docc. 22-23.
19. Si veda L. Novara, Sportello di tabernacolo, in Ori e argenti di
Sicilia dal Quattrocento al Settecento, catalogo della mostra (Trapani, 1
luglio-30 ottobre, 1989) a cura di M.C. Di Natale, Milano 1989, scheda II,72,
pp.236-237.
20. Si veda D. Scandariato, Il paliotto in corallo..., cit., p.54, docc.
23 e 22.
21. M.C. Ruggieri Tricoli, La Barbera Vincenzo, in L. Sarullo,
Dizionario…, Architettura, cit., vol. I, ad vocem.
22. M.C. Ruggieri Tricoli, Il teatro e l’altare Paliotti “d’architettura”
in Sicilia, Palermo 1992, p.113.
23. Si veda: L. Novara, Calice e ostensorio, in Ori e Argenti…, cit.,
scheda II,81, p.241; D. Scandariato, Ori e argenti sacri nelle collezioni
del Museo Regionale Pepoli, in Argenti e ori trapanesi nel Museo e nel
territorio, a cura di AM. Precopi Lombardo e L. Novara, Trapani 2010, pp,
53-59.
24. A. Buscaino, La Storia della fabbrica della Casa del Senato di
Trapani, Trapani 2002, doc. 1, pp.57-60.
25. Si veda nota 18.
26. Per la facciata si veda: S. Boscarino, Sicilia Barocca, cit., p. 105;
M. Giuffrè, Manierismo barocco nella Sicilia Occidentale: il prospetto
chiesastico come monumento urbano, Roma 1992; V. Scuderi, Architettura ed
architetti..., cit., p.18, nota 86.
27. A.S.T. not. M. Di Blasi, atto 15/2/1694; A. Buscaino, I Gesuiti…, cit.,
Cap. II, nota 42.
28. A.S.T. not. M. Di Blasi, atti: 20/1/1707 (A. Buscaino, I Gesuiti…, cit.,
Cap. II, nota 47), 17/3/1707 (A. Buscaino, I Gesuiti…, cit., Cap. II, nota
49), 3/9/1707 (A. Buscaino, I Gesuiti…, cit., Cap.II, nota 50).
29. Si veda nota 16. A.S.T. not. M. Di Blasi, atti: 20/1/1707 (A. Buscaino,
I Gesuiti…, cit., Cap. II, nota 47), 17/3/1707 (A. Buscaino, I Gesuiti…
cit., Cap. II, nota 49), 3/9/1707 (A. Buscaino, I Gesuiti… cit., Cap. II,
nota 50).
30. Si veda: L. Novara, “Abbellimenti”…, cit., p.144; Eadem, Paliotto
d’altare con veduta architettonica , in Ori e Argenti di Sicilia, catalogo
della mostra, Trapani, Museo Regionale Pepoli, 1 luglio-30 ottobre 1989, a
cura di M.C. Di Natale, Milano 1989, scheda II,172, pp.304-307; D.
Scandariato, Ori e argenti… cit., pp, 53-59.
31. M. Serraino, Trapani nella vita civile e religiosa, Trapani 1968, p.316.
Per la cappella di Sant’Ignazio oltre all’atto del 11/6/1714, A.S.T. not.
M. Di Blasi, (A. Buscaino, I Gesuiti…, cit., Cap. II, note 52, 53, 54), si
veda il Regesto dei Capitolati d’appalto e delle relazioni tecniche delle
opere di G.B. Amico conservati negli Archivi di Stato di Trapani e Palermo
e nella Biblioteca Fardelliana di Trapani, pubblicato da A. Mazzamuto in
Giovanni Biagio Amico (1684-1754) …, cit., p.129-131. A.I. Lima
(Architettura…, cit., p. 163) nel localizzare tutte le cappelle inverte la
loro collocazione, in quanto seguendo l’elenco di Padre Benigno da Santa
Caterina (Trapani profana 1812, vol.4, f. 604, ms. Biblioteca Fardelliana,
Trapani) intende la destra del cappellone per la sinistra e viceversa;
l’errore deriva dal fatto che padre Benigno, dopo avere descritto il
cappellone, si pone nella posizione di chi volgendo le spalle ad esso, si
dirige verso destra dove trova la cappella di Sant’Ignazio che invece,
secondo il normale percorso di visita (che inizia dalla navata laterale di
destra) va indicata a sinistra. A confermare ciò è lo stesso padre Benigno
che a proposito “della porta” interna “dell’ala dritta della medesima
chiesa”, specifica: “se bene nella entrata corrisponde alla sinistra”.
32. L. Novara, “Abbellimenti” …, cit., p.142.
33. G.B. Amico, L’Architetto Prattico, vol. II, p. 152.
34. A. Buscaino, I Gesuiti…, cit., p. 91; AST, not. M. Di Blasi, atto 11.
6. 1714.
35. G.M. Di Ferro, Biografia degli uomini illustri trapanesi, dall’epoca
normanna fino al corrente secolo, Trapani 1830, p. 238-39. Per la statua
si veda: AM. Precopi Lombardo, Tra artigianato e arte: la scultura del
trapanese nel XVII secolo, in Miscellanea Pepoli, Ricerche sulla cultura
artistica a Trapani e nel suo territorio, Trapani 1997, p. 95; M. Vitella,
Santa Rosalia, in Materiali preziosi dalla terra e dal mare nell’arte
trapanese e della Sicilia occidentale tra il XVIII e il XIX secolo,
catalogo della mostra (Trapani, Museo Regionale Pepoli 15 febbraio - 30
settembre 2003) a cura di M.C. Di Natale, Palermo 2003, scheda V.9.2., pp.247-249.
Per Tartaglia (o Tartaglio) si veda: R. Sinagra, Tartaglia Giacomo, in L.
Sarullo, Dizionario…Scultura, cit., vol. III, ad vocem; L. Novara,
Tartaglia (Tartaglio) in Materiali preziosi…, cit., p. 396.
36. A. Leanti, Lo stato presente della Sicilia, voll.2, Palermo 1761.
37. Si veda nota 17.
38. Si veda Inventario della sagrestia del Die Decimo Decembri 1767, AST,
Espulsione dei Gesuiti.
39. Su Sanseverino si veda, fra l’altro, G. Davì, Sanseverino Bartolomeo,
in L. Sarullo, Dizionario…, Scultura, cit., vol. III, ad vocem. Su
Marabitti si veda: D. Malignaggi, Ignazio Marabitti, in Storia dell’Arte,
n.17, 1974; F. Pipitone, Marabitti Francesco Ignazio, in L. Sarullo,
Dizionario…, Scultura, cit., vol. III, ad vocem.
40. Il 4 maggio 2014, durante una giornata di studio, è avvenuta la
riconsegna della chiesa alla città da parte del vescovo di Trapani, mons.
Pietro Maria Fragnelli. Il presente testo corrisponde al mio intervento
nella suddetta giornata di studio. |